Assegno di divorzio: l’ex moglie deve dare prova del contributo fornito durante il matrimonio

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Con l’ordinanza n. 10614 del 20.4.2023 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’attribuzione dell’assegno divorzile.

Il tema, interessato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018, continua ad essere oggetto di pronunce da parte della Suprema Corte che, di volta in volta, puntualizza alcuni aspetti rilevanti.

Nel caso di specie, i Giudici di merito avevano deciso che dovesse essere dato per scontato l’apporto della moglie al consolidamento del patrimonio famigliare, ritenuto ‘indubbio ed evidente, derivato dallo stesso disposto normativo di cui all’art. 143 c.c. (secondo cui i coniugi sono tenuti a “contribuire ai bisogni della famiglia”) ma oggetto di presunzione semplice, confutabile solo con prova contraria, il cui onere della prova ricade non su chi afferma la circostanza ma su chi la nega.

Nella specie, l’onere della prova veniva attribuito al marito, il quale avrebbe dovuto provare il mancato apporto della moglie alla vita e al patrimonio famigliare, dovendosi ritenere frutto di presunzione che la moglie avesse contribuito anche solo in termini di lavoro domestico.

Ad avviso del marito ricorrente, il contributo dato dal coniuge all’incremento del patrimonio dell’altro non si può presumere, occorrendo che sia data la prova dal coniuge che agisce in giudizio per il riconoscimento dell’assegno divorzile.

La Corte di Cassazione condivide la tesi del marito.

Orbene, l’assegno divorzile, nella sua componente compensativa, presuppone un rigoroso accertamento del nesso causale tra l’accertata sperequazione fra i mezzi economici dei coniugi e il “contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali”.

Non può essere condivisa l’affermazione che, in derivazione da quell’insieme di regole inderogabili che disciplinano il momento contributivo, cioè gli obblighi che il legislatore pone a carico di ciascun coniuge di collaborare nell’interesse della famiglia e di contribuire ai suoi bisogni, in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, sulla base dell’indirizzo della vita familiare tra loro concordato (artt. 143 e 144 c.c.), si possa desumere “l’apporto paritetico” dato da un coniuge al patrimonio dell’altro, che costituisca comunque una presunzione semplice, peraltro non supportata da indizi gravi precisi e concordanti ovvero da puntuali allegazioni da parte del soggetto che deduce la circostanza.

Invero, tale principio comporta che, a fronte di una disparità reddituale tra gli ex coniugi e di un matrimonio di durata non di pochi anni, sia da riconoscere pressoché sempre all’ex coniuge, parte debole economicamente, un assegno divorzile, dovendo presumersi che tale coniuge abbia comunque contribuito, in modo, anzi, paritetico, alla formazione del patrimonio dell’altro.

Solo un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio, presente al momento del divorzio fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, sia l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari può, invece, giustificare il riconoscimento di un assegno perequativo, tendente a colmare tale squilibrio.

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